mercoledì 13 luglio 2016

Bardolino

Eccoci nella cittadina gardesana, dopo un risveglio neppure troppo mattiniero.
Oggi si gareggia sulla distanza olimpica.
La cittadina pare in festa e l’atmosfera è frizzante.
Ovunque bandiere, gonfiabili e striscioni colorati, transenne, volontari col cartellino riempiono la vista.
C’è un andirivieni continuo di atleti con le loro tute ed il loro materiale colorato, le amate biciclette al fianco che ticchettano, lucide.
Ci si dirige immediatamente alla struttura deputata alla consegna dei pacchi gara e se ne approfitta ber un breve giro all’interno dei numerosi stands allestiti nei pressi del traguardo dalle aziende del settore: un florilegio di caschi, body, accessori per la bici, cerchioni, occhialini da nuoto, un caleidoscopio in cui ci si muove al ritmo della musica robusta e carica che l’organizzazione spara dai propri altoparlanti, sottofondo di una giornata che per molti ha il sapore dell’epico.
Sono ormai le 11, la partenza della gara per noi della undicesima batteria è prevista per le 13, per cui è ora di mangiare qualcosa. INtanto si chiacchiera e ci si scambia le ultime impressioni o consigli.
Viene dunque il momento della preparazione della bici e della vestizione, che come sempre avviene un po’ alla bell’e meglio nei pressi delle auto in sosta.
Prepariamo in nostri borsoni e ci dirigiamo dunque alla zona cambio, dove sistemiamo con cura ricontrollando più volte il nostro materiale.
Foto di rito coi compagni e poi quello che in questa occasione è stato un momento bellissimo della giornata: una nuotatina di riscaldamento che ha preceduto l’attesa dell’ingresso alla sessione nuoto.
A pelo d’acqua, a un centinaio di metri dalla riva, fuori dall’imminente concitazione della gara, abbiamo ammirato con occhi di bambino lo spettacolo di una riviera in festa, gremita di gente, brulicante di colori e rumori, circondata dai monti e lambita dalle acque cristalline del lago, di cui, bastava abbassare la testa, si vedeva nitidamente il fondo, i pesci, le lunghe alghe che salivano fino ad accarezzarci i piedi e, intorno, gli altri concorrenti che scacciavano la tensione con nervose bracciate.
E dal momento che la fortuna aiuta gli audaci, non mancava un sole stupendo, il primo sole stupendo, a illuminare nel migliore dei modi un evento sportivo davvero unico.
Al richiamo dei giudici di gara, ci siamo infine allineati nella lunga area transennata divisi in ben 12 batterie, ciascuna contraddistinta da una cuffia di diverso colore, prima le donne, poi i professionisti, e via via tutti gli altri in ordine di rank, ovvero del punteggio accumulato in gara nell’anno precedente.
Mano a mano che le batterie partivano, ci avvicinavamo di più al nostro start, tra gli sguardi curiosi e divertiti dei turisti seduti ai tavolini dei bar.
Scesi dalla banchina galleggiante nelle fredde acque del Garda, ciascuno aspettava, avvolto nella propria muta, il fischio della tromba di partenza, che scandisce l’inizio della gara, e di quella che in gergo viene definita la tonnara.
Esattamente questo sembra infatti il mulinare di braccia nelle prime fasi della competizione, in cui tutti gli atleti sono vicini e gli schizzi delle bracciate increspano e imbiancano l’acqua, che inizia a brillare del sole riflesso negli occhialini.

Uno spettacolo per chi guarda, una lotta per chi là in mezzo cerca il proprio spazio e la propria posizione, nel tentativo di sopravanzare i più lenti.
Il campo gara era perfettamente tracciato da piccole boe bianche e ogni tanto una boa più grande segnalava la distanza percorsa. Le prime centinaia di metri paiono infinite, con il cuore a mille per lo sforzo e la tensione. Poi la nuotata si distende, i sorpassi si fanno più radi e ciascuno prende il suo ritmo. Solo le boe di virata rappresentano un altro momento di tensione.
I minuti scorrono, veloci, le bracciate si susseguono, ogni tanto ci si becca una manata sul polpaccio, ogni tanto la si restituisce, improvvisamente ci si trova appaiati ad altri due atleti e par quasi di specchiarsi negli occhialini dell’altro.
Si stringono i denti, si spinge con gli avambracci, ogni tanto si becca involontariamente una boccata d’acqua, mentre si alza la testa per vedere dove si è, quanto manca, se c’è qualcuno davanti, e si torna a mulinare.
Capita anche di pensare cosa ci si fa lì, chi ce l’ha fatto fare, ma dopo circa 25 – 30 minuti di nuoto si avvistano i commissari, la passerella, si ripassano mentalmente le fasi della transizione.
Finalmente l’arco di arrivo sotto cui si transita già con una mano dietro la schiena per slacciare la muta, mentre si corre sulla moquette che porta alla zona cambio.
Giù la muta, giù gli occhialini e la cuffia, casco in testa, occhiali, bici e via, di corsa verso i 40 chilometri di asfalto.
Bardolino offre acque stupende, ma anche colline magnifiche su cui impegnare le proprie gambe. Infatti, appena lasciato il borgo si incontrano immediatamente le prime salite che impongono agli atleti uno sforzo quasi subito massimale.
La strada sale a piccoli strappi per quasi metà del percorso, snodandosi in paesaggi piacevoli e tranquilli. Nei paesi più piccoli si incontrano gruppi di curiosi che incitano e salutano.triathlon-internazionale-bardolino-004
L’alternanza continua di salite e lunghi rettifili da oltre 40 all’ora mettono a dura prova i partecipanti, che nelle prime fasi cercano un gruppo di riferimento, omogeneo con le proprie prestazioni, per scambiarsi un po’ di scia.
Ma Bardolino è bastardo: quelli che sul dritto sono dei treni, magari in salita arrancano un po’, mentre altri che fino a quel momento se ne sono stati al coperto, a volte più leggeri, ne approfittano in salita, e alla fine i gruppi si sgranano, e non resta che spingere, o intraprendere una strategia più conservativa e restare con un gruppo. Si cambiano rapporti, ci si spruzza in gola un po’ d’acqua, un paio di gel, intanto le gocce di sudore colano lungo le guance e si respira con rabbia, in cerca di ossigeno.
Si respira un po’ solo nella seconda parte del percorso, con un finale mozzafiato su stretti tornanti in discesa verso il lago, godendo di una vista superba.
Il tempo di apprezzare le bellezze del luogo è minimo, in men che non si dica si è già a sfilare sul lungolago verso la T2, ovvero la seconda transizione: si entra in zona cambio con la bicicletta al fianco, con i più scafati che la guidano per la sella, la si riappende ai sostegni, via il casco, ci si infila le scarpe e via di nuovo: ci aspettano 10 chilometri di corsa!
Sono circa le 3 del pomeriggio ed il caldo si fa sentire, soprattutto dopo un’ora e un quarto di pedalate. Sul lungolago si forma un lungo serpentone di atleti che corrono, che si sorpassano, che si fermano per un po’ d’acqua, nascondendo dietro gli occhialoni areodinamici e le visierine parasole i segni della fatica.
Due giri, dalla zona della partenza fino al giro di boa due chilometri e mezzo più a nord, sempre costeggiando il lago, in un percorso in gran parte ombreggiato.
Si parte arrembanti, ma presto le gambe si appesantiscono, il tempo ora scorre lento, e si ha il modo di osservare gli altri concorrenti, il pubblico, mentre si pensa che è ancora lunga, si spera che un crampo non venga a fermarci a un passo dalla fine. Ogni tanto si scorgono altri compagni di squadra, chi più avanti, chi più attardato, e ci si saluta, ci si dà coraggio, siamo tutti sulla stessa barca.
Gli ultimi chilometri paiono non passare mai, ma alla fine arriva il centro storico, le incitazioni dei turisti, la finish-line sullo sfondo e allora ci si dimentica del male alle gambe, dei crampi che un minuto prima scendevano nelle cosce, sul viso la smorfia di fatica si trasforma in un sorriso di soddisfazione liberatorio mentre con un occhio si guarda al tempo sul tabellone e ci si gode la musica sparata a palla dagli altoparlanti.

Dopo sono solo pacche sulle spalle dei compagni già arrivati, attesa per quelli che devono ancora arrivare, e chiacchiere ai tavoli del pasta party, commentando le sensazioni provate, i problemi superati, la soddisfazione e le delusioni per le proprie aspettative.
E risate, tante risate, con occhi scintillanti e la stanchezza che affiora sotto la pelle, sotto quel numero di gara tracciato sulla spalla.
E come per magia la fatica si è trasformata in gioia.

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